
Come ogni mattina trascorro del tempo per aggiornarmi sulle principali notizie e approfondisco ciò che più mi interessa o mi appassiona.
Non ho per scelta il televisore da molti anni per cui è un abitudine ormai radicata, un “rituale” con cui iniziare la giornata prima di cominciare a lavorare.
In questi giorni com’è ovvio sia per motivi personali che professionali approfondisco la situazione Covid-19, affidandomi a fonti che ritengo autorevoli e gettando lo sguardo anche al di là dei nostri confini nazionali (che oggi più che mai ci appaiono effimeri, una pura invenzione umana…). Conoscere altre lingue in queste situazioni è forse più importante che in altre, poter fare a meno delle traduzioni elimina se non altro il rischio di errori di interpretazione non così rari.
Penso ad un noto TG nazionale che ha tradotto erroneamente l’anglosassone recovered con “ricoverati” anziché “guariti”. Un errore non da poco direi!
Stamattina la mia attenzione è stata attratta da un articolo proposto da Quotidiano Sanità dal titolo Coronavirus e allergie. Gli allergologi: “Meno smog ridurrà i sintomi delle riniti allergiche. Non sospendere però le terapie”.
Chi fosse interessato all’articolo lo trova a questo link, quello che interessa me invece è condividere alcune riflessioni:
Sembra che i medici si siano accorti all’improvviso dell’importanza dell’ambiente in cui noi e gli animali viviamo sull’insorgenza e il decorso delle malattie, ma soprattutto chi si occupa di medicina con un approccio sistemico e non riduzionistico non fa che ripeterlo da almeno un paio di secoli (senza contare che Ippocrate ne conoscesse già l’importanza nel 400 a.C.).
Hanhemann, il medico tedesco al quale dobbiamo la teoria e il metodo della medicina omeopatica parlava di ostacoli alla guarigione facendo riferimento a tutte le influenze esterne (e non solo) all’individuo, prime fra tutte l’inquinamento e la tossicità ambientale e la salubrità di cibo e bevande.
Quel “non sospendere però le terapie” del titolo, nonostante il miglioramento dei sintomi mi induce ad ulteriori ragionamenti: le terapie non servono forse a curare (o meglio ancora guarire, che non è un sinonimo di curare)? Perché dunque non dovrebbero essere rimodulate se c’è un miglioramento dei sintomi?
E ancora, perché i medici non dovrebbero tutti indagare a fondo la qualità di vita dei propri pazienti, approfondendo le questioni che riguardano l’alimentazione, l’ambiente in cui vivono, le relazioni dal momento che conosciamo bene l’influenza che tutti questi aspetti hanno sulla salute?
Quello che mi auguro è che ciò che stiamo vivendo in questo momento così difficile per tutti possa aiutare quella che ama definirsi scienza ufficiale ad esplorare ambiti differenti dalla chimica e dalla farmacologia, per estendere lo sguardo ad altre scienze e per tornare a guardare i pazienti (che siano persone o animali poco cambia) come individui interi, immersi ognuno nella propria realtà fisica e nel proprio universo emozionale.
I confini sono davvero effimeri. E dannosi.